“Ultimi tra gli ultimi”: si usa spesso questa espressione parlando di povertà estrema. Ma sarebbe perciò più corretto parlare di “ultime tra gli ultimi” perché il genere fa la differenza anche in fondo alla scala sociale. Vivere in strada per le donne è infatti più pericoloso e far valere i propri diritti, o semplicemente far ascoltare la propria voce, è ancora più difficile.

Per questo dal dicembre 2020, “Binario ‘95” — un progetto della cooperativa sociale Europe Consulting Onlus — ha aperto a Roma le porte di Casa Sabotino: un ampio e arioso appartamento dove donne e persone transessuali sono accolte e accompagnate in un percorso di autonomia e di reinserimento.

È qui, in quella che è ora la “sua” casa, che Valentina (il nome è di fantasia per rispettare il suo desiderio di anonimato) incontra la regista Francesca Comencini, nota al grande pubblico per la serie televisiva «Gomorra» dove, però, ha portato la sua ricerca appassionata, di documentarista e autrice cinematografica, sulla questione femminile.

Sono insieme per parlare dell’amore. Ma già il loro semplice incontrarsi, raccontarsi senza pudori, ascoltarsi senza pregiudizi, ci spiega cos’è l’amore: affidarsi all’altro, senza maschere, e prendersi cura dell’altro, mettendo al primo posto il suo bene.

«Mangia, nonna, devi mangiare!»

Per amore si può scegliere di non buttarsi giù da un palazzo Con l’amore si può riprendere in mano la propria vita

 Valentina e Francesca Comencini

Arrivo a Casa Sabotino come si arriva ad ogni primo incontro, con quel senso di timore che l’ignoto ti mette addosso. Il civico è nascosto perché è attaccato al mercato rionale e la scala ha qualcosa di anonimo come tutti gli spazi pubblici, ma appena entro mi corre incontro la dolcezza di una casa.

Fulvia Vannoli, la coordinatrice da Casa Sabotino, mi chiede di aspettarla un attimo perché sta aiutando una persona straniera a sbrigare delle pratiche in italiano. All’ingresso c’è una libreria bianca dove sulle mensole sono ordinati prodotti per l’igiene personale, tinture per capelli, assorbenti. Mi fanno tenerezza e mi evocano vicinanza.

Poi Fulvia mi riceve nel soggiorno, ampio, accogliente, con bei mobili chiari, quadri alle pareti, niente è spoglio, niente è disadorno né casuale. La bellezza, da questo inizia la filosofia di comunione e di aiuto di cui mi parla Fulvia: la bellezza è necessaria, come lo sono un pasto caldo e una doccia. Questa è anche la filosofia di Binario 95, l’associazione che da vent’anni aiuta e accoglie persone senza fissa dimora in molti centri a Roma e in altre città italiane e di cui Casa Sabotino fa parte. I posti sono sempre troppo pochi, ma per donne singole, cis e trans, ne mancano più che mai: da qui l’esigenza di aprire una casa tutta per loro.

L’idea è creare un luogo di accoglienza non solo bello, ma anche nel centro della città e non ai margini. Ricomporre all’interno della casa il senso della realtà, con tutte le sue differenze, i suoi possibili conflitti, e prendersi la libertà di accogliere tutte, dai 19 ai 70 anni, “clandestine” comprese. Dopo i primi quindici giorni in cui ogni donna che arriva qui viene lasciata in pace nello spazio vuoto del suo teatro interiore, si inizia a delineare con lei un progetto, singolare, come un vestito cucito addosso, rispettando due principi: ogni persona, per quanto possa essere inciampata negli accidenti della vita, viene vista come portatrice di risorse, e il processo da agevolare è quello che la condurrà a desiderare di nuovo. Solo dal desiderio nasce l’autonomia.

Tutto mi appare molto vicino qui. Pensavo che sarei stata intimidita da chi aiuta gli altri in modo così potente, forse perché considero totalmente futile il mio lavoro in confronto al loro e perché mi sento sempre un po’ storta. Ma storti ci sentiamo tutte e tutti, mi ricorda Fulvia col suo sorriso di eterna ragazzina, ed è proprio dalle sue fragilità, mi dice, che lei ha attinto la forza e ha iniziato a pensare di poter fare un pezzo di cammino insieme a chi si è trovato a stare sul lato selvaggio della strada. Ogni angelo custodisce in sé un diavolo storto.

Mentre parliamo le donne ospiti della casa circolano in modo molto naturale intorno a noi e sempre veniamo presentate, poi però, anche incoraggiata da Fulvia, si viene a sedere con noi Valentina (nome di fantasia). E subito vedendola mi viene in mente questa frase di Kerouac: «…per me le uniche persone possibili sono quelle che bruciano, bruciano, bruciano, come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono come ragni tra le stelle e nel mezzo dello scoppio si vede una luce azzurra favolosa, e tutti fanno: Oooohhh!» (Jack Kerouac, «Sulla strada»).

In mezzo al biancore stanco della faccia senza età di Valentina esplodono i suoi occhi di un azzurro chiarissimo pieni di uno stupore luminoso.

Ci presentiamo, facciamo due chiacchiere fumando una sigaretta sul terrazzo della casa e la corrente passa subito tra noi. Valentina è rumena, di Cluje, in Transilvania. Le dico che conosco quei posti e che sono molto belli. Lei mi guarda, ironica, e dice: «Si forse sono belli, ma io non ci posso tornare e quei posti non mi mancano».

«Ho bevuto tanto nella mia vita», riprende, «dopo che mia figlia è morta».

In un lampo lo sguardo si annerisce, lei deglutisce, fa una lunga pausa, poi torna a parlare e di quella morte non parlerà mai più. Il suo racconto è come un fiume, io la ascolto senza interromperla.

«Da quattro anni però ho smesso di bere. Vedi, ora non tremo più, e non ho più voglia di bere, mai. È stato un grande combattimento per me. Non pensavo mai di scappare da questa sentenza, sì, l’alcool era come una sentenza per me.

Mi sono successe tante cose brutte. Una notte mi hanno violentata in un parco. Mi hanno strappato i vestiti. Erano tanti uomini, ma non so quanti, perché a un certo punto sono svenuta. Mi sono svegliata senza le mutande, buttata in mezzo alla terra. Volevo morire ma Dio non ha voluto che morivo.

Da piccola, in Romania, mio padre picchiava mia mamma. Venivano i poliziotti ma non facevano niente. Dicevano: “Sono marito e moglie, ora si baciano, ora si picchiano”.

Mia mamma era buona, ha lavorato 36 anni in una fabbrica di vetro. Quando mio padre ci picchiava mia mamma veniva vicino a noi e ci accarezzava e diceva: “Un giorno finirà”. “Ma quando, mamma? Quando finirà?”, ma lei a questa domanda non poteva rispondere.

Sono arrivata in Italia nel 2006 con mio figlio Andrea e un mio compagno, per cercare lavoro.

L’Italia mi è sembrata molto bella, ma anche molto difficile.

Dopo la violenza ho avuto un pre-infarto. Dormivo in una macchina. Non vedevo più nessuna speranza, mangiavo poco. Una mattina mi sono alzata, ho preso due antidolorifici, sono andata al supermercato e ho preso due birre e dopo che le ho bevute sono salita in cima a un palazzo molto alto. Ho pensato: “Fumo un’ultima sigaretta, poi mi butto”. Mentre fumavo mi è venuta davanti agli occhi l’immagine di mio figlio. Lo vedevo che piangeva e mi diceva: “Mamma, devi chiedere aiuto.” Sentivo la sua voce in testa, mi diceva: “Mamma, devi accettare qualcuno che ti aiuta.” E poi ho guardato di sotto, era tanto alto, ho pensato se mi butto con la mia fortuna neanche muoio. Mi sono fatta una risata e ho deciso di cercare aiuto. L’ho fatto per amore di lui, e anche per amore di me. Questo amore però l’ho riconosciuto solo dopo, qua.

Sono arrivata qua che ero come morta. Mi hanno trattato come una sorella, mi hanno cambiato tanto, anche nel modo di vivere, di mangiare, di avere un programma, di avere cura di me, di volermi bene. Quando sono arrivata avevo solo un cappello e una giacca e non me li levavo mai, dormivo vestita, non mi volevo fare la doccia. Non avevo voglia di curarmi. Loro mi dicevano qui c’è sempre acqua calda, puoi farti la doccia, tu non sei una barbona, devi fare la doccia, devi prendere le medicine, devi mangiare, tu non sei zozza, e così ho cominciato a prendermi cura, perché non ero più sola.

Quando vivevo in strada mi sentivo sola in questo mondo. Stavo seduta sul marciapiede, anche due, tre, quattro ore, il tempo volava. Guardavo, come in un film, la gente che andava a lavorare la mattina e tornava a casa la sera. Guardavo le persone che avevano qualcosa. I bambini, quelli che uscivano col cane, quelli che parlavano al telefono, mi immaginavo le loro storie. Ero regista, e spettatrice e anche attrice di un film sulle persone che avevano quello che io non avevo.

Sorridevo, facevo finta di star bene. Avevo un telefono, era rotto, mezzo bruciato, ma io lo tenevo sull’orecchio e facevo finta di parlare con qualcuno, dicevo: “Ciao, amore come stai?”. Sorridevo e facevo finta di avere qualcuno, e invece non avevo nessuno. “Ciao amore, tra poco torno a casa”. Ma quale amore, quale casa?

Qui in Italia mio figlio ha conosciuto una ragazza e hanno avuto una bambina. Quando è nata sono stata tutta la notte in ospedale, non sono mai andata via finché non è nata, era la mia prima nipotina! Poi sono partiti in Germania e non ho più visto la bambina, per tanti anni…

Però qualche giorno fa, la mia ex-nuora mi ha fatto una telefonata, mi ha detto che erano a Roma per qualche giorno, lei e la bambina. E ci siamo incontrate alla stazione Termini.

Mentre mi avvicinavo il cuore mi batteva, sentivo caldo in tutto il corpo. Lei mi ha visto per prima, da lontano, ha gridato: “Nonna! Nonna!” e si è messa a correre verso di me. Io le avevo portato un regalino, grazie alle ragazze di qui, un braccialetto, perché una nonna non può presentarsi a mani vuote dalla sua nipotina. Siamo rimaste insieme un po’. Abbiamo mangiato la pizza. La bambina mi metteva i pezzetti di pizza in bocca, un boccone dietro l’altro. “Mangia, nonna, mangia!” e io ridevo e dicevo: “La nonna non ha i denti, piano, piano!” (ride). Ma lei insisteva: “Mangia, nonna, devi mangiare!”.»

Valentina ride, poi si ferma. «Voleva che mangiavo», aggiunge, e i suoi occhi azzurri sono sommersi da un’ondata di tenero velame.

Dicono che negli ultimi anni della sua vita la scrittrice Elsa Morante dicesse sempre ai suoi amici che l’unica vera frase d’amore è: «Hai mangiato?». E nell’immagine di questa bimba che imbocca la sua nonna c’è racchiuso, per intero, tutto l’amore del mondo, e miracolosamente integro, il più puro desiderio che la vita ha di sé stessa.

L’articolo di Francesca Comencini è stato pubblicato da L’Osservatore di Strada, nel numero di febbraio 2023

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