“Mi sono chiuso troppo in questi anni… e non so più tornare indietro” mi dice G., un ospite italiano sulla cinquantina durante uno dei lunghi colloqui di questi giorni al Rifugio S. Anna, centro d’accoglienza di Via Guicciardini, sostenuto dal Municipio Roma I Centro. Io penso dentro di me che per molti è così in questi tempi di lockdown e quarantene forzate; sarà difficile per tutti ritornare agli altri. Per quella difficile scelta tra non contagiare e non essere contagiati e il piacere misto a necessità tutta umana di sentire l’altro come solo lo si può sentire abbracciandolo, dopo tanta distanza imposta.

Ho avuto pudore e non ho risposto, sentivo che c’era ben altro dietro quella frase che mi è tornata in mente spesso nei giorni a seguire. Oggi, a mente fredda, penso davanti ad un foglio bianco a cui affido le riflessioni di questo assurdo periodo di sospensione e di attesa che per le persone senza dimora chiudersi e non saper tornare indietro spesso è una strategia di sopravvivenza rispetto alle combinazioni riuscite male, agli spigoli mai arrotondati, al gelo instillato poco alla volta o tutto insieme delle loro storie fratturate e finite alla deriva. M. mi stava svelando la sua segreta ricetta per conservare ancora un po’ di sé di inviolato e di inviolabile, il suo “muro”-pagato-a-caro-prezzo, oltre il quale non passa la tempesta ma non passa purtroppo neanche la luce del tramonto.

Qualche giorno prima un’altra luce, la luce di un pomeriggio apparentemente come gli altri, stava entrando, graffiando le stanze del Rifugio, quasi a pennellate stilizzate che ad arte adornavano i corridoi del bellissimo palazzo di inizi ‘900 che ci ospita. Lì mi scontro con una scena quasi caravaggesca vista la luce rosata che tranciava di netto il nero del buio: L. e F. due signore africane sulla cinquantina anche loro, che condividono la stanza da qualche mese e che giorni prima avevano avuto una lite molto “colorita” dovuta alla convivenza forzata, stavano avendo cura di loro: mentre l’una intrecciava i capelli dell’altra, l’altra le restituiva la dignità che si riceve quando si permette a qualcuno di fare qualcosa per noi senza chiedere niente in cambio, se non assaporare insieme quella bellissima magia di vedere adoperare i propri talenti. Tutto questo in un’aura di pace e silenzio che contrastava fortemente con le urla della lite african style che, qui posso rivelare, mi ha fatto piangere dal ridere.

Ho invece pianto questa volta..di felicità, e le ho ringraziate non da operatrice che deve gestire per qualche ora i conflitti inevitabili in un centro d’accoglienza, ma come una donna che vede altre donne avere cura di sé, come tratto unico dell’essere umano che lo fa, anche se non con consapevolezza, sicuramente con estremo piacere. Ho pensato che forse stavamo facendo un buon lavoro, restituendo loro qualcosa di molto più prezioso di una sistemazione sicura. Ammettendolo a me stessa, forse per la prima volta in quel momento sono davvero entrata nel Rifugio dopo già qualche settimane dal trasferimento qui dal mio impiego abituale.

Ho capito allora quello che spesso ci diciamo noi tecnici del sociale, che dare alloggio alle persone non basta a dargli una “casa”, anche fosse solo per qualche mese; tutt’al più se le gestisci, le fai mangiare, dormire e lavare nei ritmi serrati e immodificabili di una comunità di 30 persone che per funzionare deve essere necessariamente scadenzata da regole e abitudini decise a tavolino. Se non scambiano competenze, capacità, abilità, talenti appunto, che appartengono a quel prima in cui erano considerate persone a tutto tondo e non solo “ospiti” di un centro notturno, stai dando loro solo un riparo non un luogo di vera ripresa.

Come fare tutto questo in un momento storico in cui le persone già normalmente non possono lavorare, non possono incontrare amici e parenti, non possono andare al bar e scambiare 4 chiacchiere col barista e tutte le altre quotidiane scene di vita dalla A alla Z, che fanno di noi non solo corpi che esistono ma Persone con la P maiuscola?

E poi è arrivata lei, come una pacca sulla spalla che ti ferma da dietro quando sei distratto, lei, la schietta morsa al respiro che ti rivela che le persone senza dimora sono private di tutto questo molto più a lungo di questi maledetti due mesi di Coronavirus, e nelle stratificazioni più antiche di loro se è possibile; dobbiamo quindi riflettere e agire sul fatto che alcune fasce di popolazione, quelle più fragili, sono private costantemente di tutto quello che ti fa appartenere al genere umano, non solo ora in tempi di contagi fuori controllo. E mi viene da dire, rubando sommessamente un titolo, che per certi versi c’entra con il periodo storico in cui genialmente è stato partorito, che Se questo è un uomo.. quell’uomo fa davvero molto di più che attendere di tornare indietro, per dirla anche un po’ con le parole del sig. G. a cui dedico, a lui per tutti, un augurio in questa pagina di diario aperto e di resistenza non solo al Coronavirus ma a tutte le privazioni e gli impoverimenti.

Che tutti noi possiamo presto ritornare agli altri.

AUTricE 

 

 

Alessia Capasso
Operatrice Rifugio Sant’Anna, Psicologa e Psicoterapeuta

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